Il “modello Albania”: Una svolta nelle politiche migratorie europee

L’accordo tra Italia e Albania per il trasferimento dei migranti rappresenta un punto di svolta significativo nelle politiche migratorie europee. Questo modello, che sta facendo scuola in diversi paesi, solleva importanti questioni politiche, giuridiche e sociali che meritano un’analisi approfondita.
Le origini e il contesto storico
Il “modello Albania” non nasce dal vuoto, ma si inserisce in una tendenza consolidata di esternalizzazione delle frontiere europee. Negli ultimi decenni, l’Unione Europea e i suoi Stati membri hanno progressivamente delegato la gestione dei flussi migratori a paesi terzi, attraverso accordi di cooperazione, finanziamenti e politiche di contenimento. Tuttavia, l’accordo italo-albanese segna una discontinuità significativa: radicalizza pratiche già esistenti e porta a un nuovo livello la selettività nell’applicazione dei diritti fondamentali.
L’intesa si colloca in un contesto globale caratterizzato da simili esperimenti, come il controverso piano Regno Unito-Rwanda e le proposte sui “return hubs” discusse a livello europeo. Non si tratta quindi di un’iniziativa isolata né esclusiva delle forze politiche di destra, ma riflette una razionalità condivisa a livello transnazionale che vede nella deterrenza e nell’esternalizzazione la risposta principale alla gestione dei flussi migratori.
La meccanica del modello
Il protocollo prevede il trasferimento in Albania di migranti intercettati nelle acque internazionali dalle autorità italiane. Inizialmente limitato a questa categoria, è stato successivamente esteso anche ai migranti irregolari già presenti sul territorio italiano, segnando un ulteriore salto di qualità nella logica dell’esternalizzazione. In territorio albanese, all’interno di strutture sotto giurisdizione italiana, vengono svolte le procedure di identificazione e di esame delle domande d’asilo.
Questo meccanismo solleva complesse questioni di diritto: si crea una sorta di “extraterritorialità” giuridica, dove il diritto italiano ed europeo si applica in modo selettivo, creando zone grigie dove i diritti dei migranti rischiano di essere compressi. La trasformazione dei concetti di territorialità e sovranità rappresenta una delle innovazioni più problematiche del modello.
Il significato politico e simbolico
Il “modello Albania” opera su due piani distinti ma interconnessi: quello materiale e quello simbolico. Sul piano materiale, comporta trasferimenti forzati, detenzione e limitazione dell’accesso ai diritti. Sul piano simbolico, invia un messaggio di deterrenza e punizione rivolto non solo ai diretti interessati, ma a tutte le persone migranti, attuali e potenziali.
La spettacolarizzazione dei trasferimenti e delle strutture di detenzione serve a rafforzare la percezione di un controllo totale sui flussi migratori. Tuttavia, dietro questa messa in scena si cela una violenza sistemica che agisce concretamente sulle soggettività migranti, riducendo le persone a oggetti di politiche securitarie.
L’efficacia e i limiti
Nonostante la retorica governativa, il modello si è finora rivelato poco efficace dal punto di vista quantitativo: i dati mostrano che pochissimi migranti sono stati effettivamente trattenuti in Albania, e molti di quelli trasferiti sono stati riportati in Italia dopo la mancata convalida dei fermi da parte della magistratura. I tribunali italiani, infatti, hanno sollevato numerose questioni sulla legittimità di queste pratiche alla luce del diritto nazionale ed europeo.
Tuttavia, sarebbe un errore valutare il “modello Albania” esclusivamente in base ai numeri. La sua funzione principale non è quantitativa, ma qualitativa: ridefinire la posizione sociale e giuridica dei migranti attraverso la minaccia costante della “deportabilità”. Questo concetto, elaborato dalla sociologa Nicholas De Genova, indica la condizione di precarietà e ricattabilità in cui vengono mantenuti i migranti, influenzando profondamente la loro posizione nel mercato del lavoro e le possibilità di attivazione sociale e politica.
La questione terminologica: deportazione e trasferimento
Non è secondaria la questione terminologica relativa a questi spostamenti forzati. Il termine “deportazione”, utilizzato da molti attivisti e studiosi, restituisce la natura coatta e violenta del processo. D’altra parte, un uso estensivo di questo termine rischia di normalizzarlo e depoliticizzarlo, oscurando le differenze tra le varie forme di mobilità forzata e la possibilità di agency da parte dei migranti.
Le autorità preferiscono parlare di “trasferimenti” o “ricollocazioni”, utilizzando un linguaggio tecnico-burocratico che nasconde la violenza intrinseca a queste pratiche. La scelta delle parole non è mai neutrale: definisce il perimetro del dibattito pubblico e influenza la percezione sociale del fenomeno.
Il ruolo ambivalente del diritto
In questo scenario, il diritto mostra tutte le sue ambivalenze. Da un lato, rappresenta uno strumento fondamentale di tutela individuale: gli interventi della magistratura hanno temporaneamente bloccato o limitato l’applicazione del modello, riaffermando il primato dei diritti fondamentali. Dall’altro, il governo è riuscito a piegare l’ordinamento giuridico ai propri fini politici, modificando ripetutamente la normativa per aggirare gli ostacoli posti dai tribunali.
Questa dialettica evidenzia come la sfida posta dal “modello Albania” sia eminentemente politica e non solo giuridica. Il diritto può offrire argini e tutele, ma non può da solo risolvere contraddizioni che appartengono alla sfera delle scelte politiche fondamentali sul modo di concepire la cittadinanza e i diritti.
Resistenza e agency migrante
Nonostante l’intento disciplinante, il modello non riesce a normalizzare completamente il movimento migrante. Le pratiche di attraversamento, negoziazione e resistenza continuano a riaprire spazi di libertà e agency, anche in contesti ostili. I migranti non sono meri oggetti passivi delle politiche di controllo, ma soggetti attivi che sviluppano strategie di adattamento e contestazione.
Questa dimensione è spesso trascurata nelle analisi mainstream, che tendono a rappresentare i migranti come masse indistinte e prive di voce. Riconoscere la loro agency significa anche riconoscere la dimensione politica delle migrazioni, al di là delle rappresentazioni umanitarie o securitarie.
La mobilitazione sociale
Il “modello Albania” ha suscitato una significativa mobilitazione sociale, sia in Italia che in Albania. Organizzazioni non governative, associazioni per i diritti umani, movimenti sociali e settori della società civile hanno denunciato le criticità dell’accordo e monitorato la sua applicazione.
Particolarmente interessante è stata la nascita di forme di attivismo transnazionale, che hanno collegato le lotte per la libertà di movimento in diversi paesi europei. Questa dimensione transnazionale della resistenza riflette la natura stessa del fenomeno migratorio e la necessità di risposte che superino i confini nazionali.
Conclusioni: fragilità e prospettive
Il “modello Albania”, pur nella sua apparente solidità, rivela significative fragilità: è stato modificato più volte in corso d’opera, la sua implementazione è tutt’altro che lineare e ha incontrato resistenze giuridiche, sociali e politiche.
Ciò che resta da vedere è se questo modello rappresenti effettivamente il futuro delle politiche migratorie europee o se sia destinato a rimanere un esperimento isolato. Ciò che è certo è che ha già prodotto effetti concreti sul dibattito pubblico e sulle vite delle persone migranti, ridefinendo i confini tra legalità e illegalità, tra diritti e privilegi.
La sfida per una politica migratoria alternativa rimane quella di ripensare radicalmente i concetti di cittadinanza, appartenenza e mobilità in un mondo sempre più interconnesso, dove la libertà di movimento rimane uno dei principali terreni di conflitto sociale e politico del nostro tempo.
Questo articolo offre un’analisi del “modello Albania” basata sulle più recenti ricerche e riflessioni critiche sul tema. Le fonti includono studi accademici, report di organizzazioni non governative e analisi giuridiche che hanno esaminato l’accordo tra Italia e Albania e le sue implicazioni per le politiche migratorie europee.
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